Recensione di “Space Hunter” della Miciosegone

Space Hunter (by Miciosegone)

Premessa generale.

Non ho scritto molte recensioni (è anche vero che in generale non ho scritto molte recensioni punto e basta) di avventure freeware/amatoriali, tantomeno comiche. Ritengo che non si possa parlare alla medesima maniera, utilizzando cioè lo stesso metro e gli stessi strumenti che comunemente si adottano  per analizzare un prodotto commerciale. Se da una parte non è ragionevole aspettarsi caratteristiche di alto livello che richiedono un team progettuale a tempo pieno con conseguenti budget dedicati, dall’altra il solo fatto di avere una squadra di sviluppo che lavora per diletto e non per profitto non può giustificare un degradamento qualitativo delle caratteristiche proprie di un’avventura grafica rapportato sia alla struttura standard del genere sia ad un accettabile livello degli aspetti estetici del gioco rispetto agli standard correnti. Detto “terra terra”, un gioco amatoriale alla “Hugo in the house of horror” (che tanto freeware non era, fra l’altro, bensì shareware) poteva essere accettabile e forse addirittura al livello delle avventure Sierra a cavallo degli anni ‘80/’90, ma sicuramente oggi, in mancanza di precise scelte stilistiche e di altri aspetti che controbilancino la grafica pixellosissima, farebbe alzare il sopracciglio anche al retro giocatore nostalgico. Ciò detto in forma del tutto generale e slegata dall’avventura in questione, solo per introdurre il problema metodologico che ci si può, e ci si deve, porre nella critica di un prodotto così diverso da quelli mainstream, la domanda da porsi prima di entrare nel vivo della recensione è: quale critica è necessario adottare per i prodotti, nel nostro caso le avventure grafiche, amatoriali e freeware (termini che per amore di semplificazione potrei tendere ad usare come sinonimi in questo contesto, ma che sinonimi a priori non sono)? La scelta che ho fatto è di procedere, né più né meno con le medesime modalità di un’avventura commerciale, cercando cioè di estrarre gli elementi costitutivi di un rappresentante del genere (trama, grafica, interfaccia, musica/suono/doppiaggio, enigmi, testo) ed individuare “delle basi razionali per la valutazione e l’apprezzamento dell’arte”, come dice wikipedia nella definizione della “critica artistica”, eliminando dall’analisi tutti quegli elementi come confezionamento esterno, manualistica, presentazione del sito, altre recensioni, dichiarazioni del produttore, che, pur rappresentando forme di (iper)testo inerente all’opera in esame, ciononostante costituiscono elementi metatestuali in forma di peritesto ed epitesto (strutture semiologiche il cui approfondimento nell’ambito della critica videoludica, e più nello specifico, delle avventure grafiche, mi ripropongo di analizzare in altre sedi in un futuro indefinito).

Ma perché, qualcuno potrebbe chiedere (e concludo)  i videogiochi sono arte? Certo che lo sono, se accettiamo quanto riportato sempre da wikipedia, che non sarà la Bibbia, è vero, ma non è neanche un romanzo di Liala, che:

“l’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme creative di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Nella sua accezione odierna, l’arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni, per cui le espressioni artistiche, pur puntando a trasmettere “messaggi”, non costituiscono un vero e proprio linguaggio, in quanto non hanno un codice inequivocabile condiviso tra tutti i fruitori, ma al contrario vengono interpretate soggettivamente.”

e, proseguendo:

Alcuni filosofi e studiosi di semantica sostengono però che esista un linguaggio oggettivo che prescinda dalle epoche e dagli stili e che dovrebbe essere codificato per poter essere compreso da tutti, sebbene gli sforzi per dimostrare questa affermazione siano stati finora infruttuosi.

Io ovviamente, che amo mettermi sempre dalla parte più scomoda, sono di quest’ultimo avviso.

Resta comunque fermo il fatto che, il solo fatto che un’opera possa essere “artistica” non la pone automaticamente sullo scaffale dei capolavori, esistendo arte fatta bene e arte fatta male, e chi si pronuncia su quale lo sia e quale no, oltre al riconoscimento del pubblico, non necessariamente pagante, attraverso la percezione soggettiva di ciascuno, è la critica.

Premessa alla recensione.

Space Hunter è un’avventura grafica prodotta in forma amatoriale con il motore e ambiente di sviluppo AGS dalla Miciosegone Games Inc. (sic!), la “più produttiva casa di produzione freeware italiana”, recita il sito web, pubblicata nell’agosto del 2010, secondo quanto riporta Mobygames. A questa recensione si è arrivati anche dopo essere venuti a conoscenza che alcune avventure dello stesso produttore hanno rappresentato l’Italia presso competizioni ufficiali internazionali, notizia che è circolata forse un po’ troppo “sottotono”.

Non sia mai.

Qualunque impegno a qualsiasi titolo volto a promuovere e diffondere l’avventura grafica come forma di produzione di opere artistiche, va valorizzato e fatto emergere.

Il gioco, ottenibile ovviamente solo attraverso download, si installa semplicemente decomprimendo la cartella zippata nella directory che preferiamo. Il file Readme.doc non offre una bella presentazione per i giocatori stranieri (che potranno giocare in inglese l’avventura operando sul file di setup; in questa recensione viene valutata la versione in italiano): si parte subito con un chiaro svarione di inglese: “For play the game on wyndows 7 use the winsetup file for choose a lower risolution , fullscreen don’t work”.  Il consiglio in realtà è un po’ troppo drastico: sul notebook su cui è stato provato il gioco, con Win7, è stato possibile giocare a schermo pieno con un gioco di CTRL-ALT-DEL / “Passa a …” ma senza potere visualizzare i filmati. Alla fine si è optato per la decisione di giocare alternativamente per la maggior parte del tempo in finestra (non ridimensionabile, a meno di operare su altri settaggi che comunque non si sono trovati) e in parte a tutto schermo.

Il tema del cacciatore (di taglie) spaziale, trasposizione futuristica dell’investigatore privato dei film noir, è un tema ricorrente nella letteratura cyber-punk-fantascientifica (basti pensare, uno fra tutti, a Blade Runner), che fa riportare alla mente anche un vecchio film del 1983, Il cacciatore dello spazio (Space Hunter in originale, appunto).

Voglio entrare nel vivo della recensione sputando sin da subito i “rospi” più grossi, per passare poi in seguito agli apprezzamenti, che non mancano, ci tengo ad anticiparlo, pur essendo globalmente questo titolo un lavoro “adolescenziale”, questo va detto senza mezzi termini, e per molti versi un lavoro lasciato a metà.

Primo tra tutti, lo scoglio degli errori di ortografia, che non si limitano ad estemporanei errori di battitura, ma che testimoniano una carenza di base della grammatica e dello stile di scrittura. Sono veramente fastidiosi, ed impediscono di poter seguire decentemente le linee di testo a video; talvolta il sorriso viene provocato dagli svarioni (uno tra tutti, “propio” o “propietario”  senza la seconda erre, ripetuto decine e decine di volte nel corso di tutta l’avventura), più che dalle battute.

Un esempio degli errori di ortografia.

Questo, voglio intenzionalmente essere duro su quest’aspetto, non deve accadere mai in un gioco che presenti molto testo come la maggior parte delle avventure grafiche. Il problema è facilmente arginabile e risolvibile, basta (tanto siamo in ambito amatoriale e non remunerativo) rivolgersi ad un amico, che magari abbia un otto in italiano (almeno uno lo si troverà, perdiana!) e chiedergli la cortesia di correggere gli errori di ortografia, le “è” o le “é” dove servono (non sono la stessa cosa), controllare gli apostrofi dove sono necessari e dove non lo sono, i”centra” per “c’entra”, i “cie” e “gie” inappropriati o convertiti in “ce” e “ge” erroneamente, la consecutio temporum e il congiuntivo dove necessario, i monosillabi che non richiedono accentazione, tutte cose a cui con una passata del correttore ortografico di un qualsiasi programma di videoscrittura si può dare una sgrossata micidiale. Questo è uno dei tanti elementi che mi portano a credere che non sia stato dedicato il necessario tempo per realizzare quest’avventura. Un’avventura, non importa se amatoriale o commerciale, non si fa in 10 giorni, in primo luogo, ma soprattutto senza un adeguato ed approfondito betatest condotto da persone terze rispetto all’autore, meglio se completamente digiune di informatica, giochi, o del tema stesso. La sensazione generale, praticamente in ogni comparto, fatta eccezione per  quello musicale, è che il lavoro sia stato buttato giù di getto e che ci sia accontentati di una versione beta, senza preoccuparsi di individuare e correggere molti difetti  anche evidenti. La fretta è sempre una cattiva consigliera in tutte le cose, ma in questo caso lo è ancora di più. Non si diventa buoni realizzatori di avventure sfornandone diciotto (dico per dire) mediocri in un anno, ne basta una, fatta perbene. E  questo è un atteggiamento che va evitato in ogni caso, lo sviluppatore, se commerciale a maggior ragione perché ha un dovere nei confronti del giocatore pagante, ma pur sempre anche nel caso sia amatoriale, ha un obbligo morale che comincia nel momento stesso in cui progetta l’opera e termina il giorno del rilascio finale, di consegnare al gioco un prodotto che sia ragionevolmente quanto di meglio ha potuto fare.

Grafica

In un’avventura grafica, la grafica, appunto, non può essere trascurata; certo, è vero che un’avventura senza grafica, se c’è una storia valida, continua a reggersi in piedi (semmai diventa testuale), mentre difficilmente riesco ad immaginare il contrario, ma questo non deve diventare un alibi. I fondali devono essere rifiniti per quanto si può, i path (le parti realmente calpestabili dall’avatar) devono essere ben delineati, non devono vedersi innaturali percorsi che “attraversano” letteralmente oggetti impenetrabili o personaggi che “levitano” per aria, gli oggetti e le parti interagibili devono essere facilmente riconoscibili e gli hotspot (ossia le parti interagibili della schermata di gioco) devono essere precisamente puntabili. Sotto tutti quanti questi aspetti, Space Hunter è oggettivamente carente. Non stiamo parlando di bellezza, categoria fortemente soggettiva, né di aspetti estetici. Si può anche disegnare come un bambino di tre anni (ma non è questo il caso, ovviamente), ma quando si passa sopra quello che si pensa che possa essere un oggetto con cui interagire, si deve visualizzare il suo nome a video quando si passa sopra l’oggetto, non venti pixel più a destra, l’immagine dell’interfaccia (guarda, parla, usa) non deve mai sovrapporsi alla frase verbo-oggetto-complemento del parser che appare in basso, i fondali con un punto di fuga lontano sono belli, ma devono poi essere gestiti adeguatamente con il proporzionamento progressivo degli sprite, gli oggetti e gli hotspot, infine, devono essere sempre chiaramente visibili e facilmente distinguibili.

Gli sprite del protagonista non sono ancorati alle parti camminabili

Si prenda ad esempio la seguente immagine, presa dai primi minuti di gioco:

Un fondale tipo

In questa immagine ci dovrebbe essere un quadro (sulla sinistra), un frigorifero (sulla destra) un fast food (sempre sulla destra in alto).

Gli sprite inoltre come si può meglio vedere nell’immagine successiva presa dalla stessa scena

Esempio di sprite

sono talvolta appiattiti (l’impressione è che siano direttamente disegnati sullo sfondo) e senza terza dimensione, pur essendo a tutti gli effetti interagibili, con un aspetto piuttosto irreale, come se fossero delle sagome di cartone appoggiate per terra.

Le cose, non capiamo perché, migliorano per la verità decisamente dal terzo capitolo, dove si nota un’accuratezza di realizzazione di fondali e sprite (ma con la comparsa di insopportabili hotspot di dimensione minima che danno luogo ad un intollerabile pixel hunting). La sensazione è che ci sia stato un progressivo miglioramento delle capacità di trasferimento in digitale dei disegni iniziali, senza che si sia tornati ad adeguare il livello qualitativo dell’intera avventura, o che i capitoli siano stati sviluppati da persone diverse e/o in tempi piuttosto distanti. Anche questo concorre a dare la sensazione di trovarsi di fronte ad un semilavorato piuttosto che ad un prodotto finito.

Un fondale ben disegnato e progettato.

Interfaccia

L’interfaccia è, strutturalmente facile e comoda da utilizzarsi. La gestione dei caricamenti (Salva-Carica-Esci) è implementata tramite menù a scomparsa visualizzabile posizionando il puntatore nella parte alta della schermata di gioco. Solo occasionalmente si verifica il caso di attivare involontariamente il menù, in genere gli hotspot non sono posti in quella zona dello schermo.

L’inventario, invece, è visualizzabile con il classico clic del tasto destro del mouse. L’inventario è – eventualmente, nel caso che il numero degli oggetti in inventario lo giustifichi – scorribile attraverso due tasti freccia dx-sx.  Questi tasti freccia soffrono anch’essi del difetto lamentato prima: quasi mai cliccando sopra la freccia (come invece viene naturale) attiverete lo spostamento, ma solo posizionandosi un po’ più a destra, fuori dalla immagine della freccia. Peccato che così facendo si rischia di far scomparire l’interfaccia dell’inventario. I verbi utilizzabili per agire sugli oggetti sono i medesimi disponibili per visualizzare gli hotspot a video. E’ possibile combinare gli oggetti in inventario tra di loro, semplicemente “draggandone” uno sull’altro; il fatto che esistano più schermate per visualizzarli forse rallenta (e alla lunga stanca, soprattutto nel “prova tutto con tutto”, pratica che purtroppo, come vedremo più avanti è drammaticamente necessaria) e rende poco pratico combinare un oggetto presente in una schermata con uno di un’altra.

La combinazione di oggetti, stranamente, non è simmetrica (se combinate A con B, con esito negativo, combinando B con A potreste avere successo). Questo potrebbe avere senso in casi  particolari come “martello” e “chiodo” , ma così non è sempre. Inoltre, può capitare che combinando un oggetto con un altro, molto spesso su un hotspot, non si abbia in risposta neanche una frase di default (quelle tipo “Non puoi utilizzare A con B”) il che non è molto “carino”; viceversa, per quegli oggetti che presentano in fase di combinazione con altro oggetto una frase di default, questa frase sarà sempre restituita, anche quando sarà combinato con un oggetto che dà luogo ad un risultato (nella fattispecie la creazione di un nuovo oggetto); cioè otterremo prima la frase di default, e poi la frase che descrive positivamente la combinazione fatta, a volte con espressioni discordanti.

Quella che sembra un po’ raffazzonata  è la traduzione dell’interfaccia, probabilmente è stato lasciato lo standard del modulo AGS. Questo “stona” perché per certi tratti dell’avventura il testo visualizzato a video è per metà in inglese (i verbi, le azioni e le preposizioni) e per metà in italiano (i nomi degli oggetti); anche qui ribadiamo che un minimo sforzo avrebbe consentito di raggiungere un risultato proporzionalmente molto maggiore del tempo perso.

L’ultimo comando generato resta sul video per tutto il tempo di un eventuale sequenza animata che ne consegua.

Come peccato veniale, ma non troppo, citiamo la poca leggibilità che alcune frasi a video presentano per la scelta non felice di contrasto tra il colore del testo e lo sfondo.

Altro fenomeno che avrebbe potuto essere facilmente evitato è l’artificiosità del passaggio tra una “stanza” e l’altra (ricordiamo che nel gergo delle avventure grafiche e non solo, la “room”, la “stanza”appunto, è un qualsiasi ambiente suddiviso in una o più schermate che sia liberamente esplorabile e che è collegato alle altre stanze attraverso delle “uscite”). Perché mai, se correttamente l’uscita di una stanza è evidenziata da “Vai al ponte”, tanto per fare un esempio, non posso passare all’altra stanza semplicemente cliccando sopra allo hotspot “Vai al ponte”, come qualunque altra avventura grafica? Invece è necessario aprire l’inventario, selezionare il verbo usa e cliccare sullo hotspot. Da rivedere senza riserve.

Suono/Musica/Doppiaggio.

Assente, come probabilmente ci si può aspettare da un’avventura amatoriale, il doppiaggio, ci concentriamo su effetti sonori e musica.

Gli effetti sono spartani ed essenziali, esiste un suono di default che ci avvertirà quando si è compiuta un’azione che dà luogo ad un risultato utile all’avanzamento dell’avventura.

Una piacevole sorpresa viene dalla musica, formata da brani liberamente reperiti dagli autori Bjorn Lynne e Kevin MacLeod che hanno rilasciato alcuni brani di loro esecuzione come file midi liberamente scaricabili senza necessità di pagamento dei diritti per fini non commerciali. Alcuni temi sono noti, come Chattanooga Choo Choo di Glenn Miller.

Ogni locazione ha la sua musica assegnata e, dato che non si persisterà a lungo in una stanza, alla fine la sensazione generale è piuttosto piacevole. Forse però si sarebbe potuto attingere ad una colonna sonora che avesse avuto di più un carattere comico.

Da segnalare, nel mezzo delle gag e battute di non eccelsa comicità, un piccolo gioiellino di filmato, citazione (volontaria?) del ballo degli scheletri di Monkey Island 2, della Skeleton dance di un cartone della Disney, e della canzone finale di Discworld 2That’s death” (a sua volta parodia di “That’s Life” di Frank Sinatra) interpretata appunto da uno scheletro. La canzone è un vecchio titolo anni  ’50 a firma di Fred Buscaglione, “Giorgio del lago Maggiore”.

Qui, non ho vergogna ad ammetterlo, il recensore si è rotolato dalle risate.

Veramente ben fatto ed ideato; è con questo stile e questo tipo di ironia che ci sarebbe piaciuto giocare tutta l’avventura; per il futuro ci si permette di consigliare di continuare in questa direzione. Per chi non avesse il tempo di giocare tutta l’avventura, ma vuole vedere questa piccola ma incisiva realizzazione, essa è presente come file *.wmv come tutti gli altri filmati nella cartella del gioco.

Enigmi.

Gli enigmi sono uno degli elementi strutturalmente imprescindibili di una avventura grafica. In Space Hunter ne abbiamo una grande quantità che si basano sul “prova tutto con tutto”, alla fin fine.

Non ci risulta ben chiaro ad esempio il perché un lucchetto che rifiuta di aprirsi scassinandolo con qualsiasi oggetto dovrebbe saltare sparandogli una caramella “ciancicata” fino a ridurla a forma di proiettile. O perché scarabocchiare con un pennarello rosso un dispositivo ad un incrocio per farlo andare in tilt?

O perché un copri fronte, senza alcun altra indicazione né visiva né testuale, dovrebbe riflettere la luce? (perché il coprifronte di Naruto è metallico? E che ne posso sapere io che vedo tutto ciò che è giapponese, tranne la cucina, come il fumo negli occhi? Almeno si metta un suggerimento quanto si fa “Guarda Coprifronte” con risposta: “E’ riflettente!”. Dall’immagine nell’inventario dell’oggetto non si evince nulla.) O ancora perché da un bretzel combinato con un jetpack rotto e poi con uno gnorkettino (!) si ottenga un jetpack funzionante.

“Enigma demenziale” non vuol dire “enigma assurdo”. In ogni momento per la risoluzione  si deve avere un indizio che ci possa far esclamare alla fine: “Ma certo, come ho fatto a non pensarci?”. Così come, quanto mi vengono assegnate le consuete “missioni” o “liste di cose da fare” (famose le tre prove per diventare pirata di Monkey Island) devo poter avere l’occasione di riepilogarle o sentirle ripetere, da un dialogo, da un appunto, o da un diario automatico. Ad aggravare la situazione, c’è il problema del non perfetto puntamento degli hotspot, unito ad un certo numero di hotspot millimetrici (pixel-hunting), che rende la risoluzione di alcuni enigmi puramente casuale.

Sia detto una volta per tutte: non riuscirete a venire a capo di Space Hunter senza consultare un walkthrough; ci è capitato di venire a conoscenza di alcuni oggetti da prelevare affetti da pixel hunting solo dalla soluzione presente sul sito, ed anche in questo caso avere difficoltà a puntare l’oggetto, perché oggettivamente invisibile o indistinguibile, sullo schermo (esempio, la freccia sul cartello turistico, o la roccia della talpa gigante).

Anche l’applicazione degli oggetti agli hotspot è discutibile: perché dei tappi per le orecchie funzionano sulle note fastidiose prodotte da un chitarrista punk, e non sul protagonista Kolt, se poi è Kolt che se le ficca nelle orecchie?

L’astrusità della maggior parte degli enigmi spezza parecchio l’andamento della storia: avremmo preferito senz’altro che ci soffermasse di più e si spendesse più tempo (lo stiamo ripetendo allo sfinimento) nell’aggiungere nei dialoghi, nei commenti emessi guardando gli oggetti dell’inventario e gli hotspot un maggior numero di indizi che rendessero più logica la risoluzione anche a discapito della durata complessiva di gioco.

L’avventura demenziale deve far ridere, non esaurire il giocatore nel rincorrere una logica (che può essere anche surreale, ma ci deve essere) che non c’è.

Storia.

La trama, a dispetto della natura amatoriale del titolo, è articolata e ricca di colpi di scena. Molto per sommi capi, il protagonista è Kolt, un cacciatore di taglie di cui nel prologo (in realtà presentato erroneamente come “Epilogue”, nell’intro) possiamo  rivivere il suo primo caso; tornati alla narrazione al presente, Kolt verrà “incastrato” da un criminale che riesce a far credere che Kolt abbia liberato tutti i criminali della città mettendosi dalla parte del crimine. Kolt dovrà dunque tra alterne vicende ristabilire l’ordine per riabilitarsi.

Gli spunti e le citazioni (un intero capitolo è ispirato a Dune) di film e classici del mondo noir e cyberpunk si sprecano. Sulla resa di uno dei fini di un’avventura grafica demenziale, cioè far ridere, abbiamo qualche perplessità; non solo alcuni riferimenti ci sembrano piuttosto legati a contesti e realtà abbastanza di “nicchia” (la Quanza (che supponiamo sia una traslitterazione di “kwanzaa”, festività moderna afroamericana), l’”Hannukà”, festività ebraica, o certa oggettistica ninja), ma in alcuni casi ci è sembrato che si facesse riferimento a vocaboli regionali (spaciuco) se non amicali o di comitiva degli autori.

L’avventura spesso non riesce a raggiungere il suo fine …

… di far ridere, marcando troppo…

Il problema è che le battute sembrano essere state buttate giù di getto e molte, nel migliore dei casi, supponiamo con l’intenzione di essere “aggiustate” in un secondo momento. Ci pare che questo, per la qualità e la maturità, sia un testo “adolescenziale”, con ciò intendendo un “prima opera”, sebbene esistano degli indizi che lasciano credere che si sarebbe potuto fare benissimo meglio. Anche qui, lo ripeteremo sino a farci sanguinare la lingua, si sarebbe dovuto avere la pazienza di spendere ulteriore tempo per studiare con più calma e in un momento di maggiore ispirazione molte delle battute.

Non basta l’assurdità o l’astrusità per fare comicità.

C’è uno stuolo intero di personaggi, alcuni dei quali dalle oggettive potenzialità comiche, che non vengono, nel nostro giudizio, adeguatamente sviluppati e sfruttati per veicolare la parte comica dell’avventura. Quello che difetta, intendiamo dire, è una maggiore regia che orchestri al meglio le interazioni e i dialoghi tra i vari personaggi e dia quel senso di “commedia” (niente di male se fosse “dell’arte”) che deve avere un titolo del genere. Non sappiamo desumere se si sia scritta precedentemente una sceneggiatura (sì, una sceneggiatura: fare un’avventura grafica non è, in linea di principio, molto dissimile dallo scrivere un film) e se tutti i dialoghi fossero stati buttati giù con carta e penna (o video e tastiera, adesso non stiamo a disquisire), ma da molti indizi ci pare proprio di no: e questo è un peccato, perché il gioco ne soffre molto: speriamo che questi difetti siano stati evitati nelle avventure prodotte in seguito, e se no, invitiamo l’autore a riprendere in mano con coraggio il codice e lavorare di pialla e lima, perché ne vale veramente la pena.

…la componente demenziale.

Anche se, a dire il vero, le cose migliorano, pur essendoci ancora dei residui di problemi un po’ in tutti i comparti, decisamente nell’ultimo capitolo, i dialoghi sono più scorrevoli, tornano alcuni personaggi incontrati precedentemente dando una profondità maggiore all’intreccio e fornendo ulteriori spunti comici, gli enigmi, pur restando di stampo demenziale, migliorano, restano purtroppo gli hotspot affetti da pixel hunting, la storia converge verso l’inevitabile inseguimento e sfida finale, certe battute un paio di sorrisi li strappano.

Considerazione e giudizio finale, tirando le somme: non è possibile considerare quest’avventura un prodotto finito, invitiamo l’autore/gli autori a riprenderla in mano e ripulirla dai difetti, perché ha ottime possibilità di uscirne fuori, pur essendo amatoriale, una buona avventura, a patto che si arricchiscano, in profondità, dialoghi e indizi e si correggano alcuni difetti grafici evidenziati sopra.

Questa sinceramente non l’ho capita. Quello accanto al protagonista è lo Yellow Budger che dovrebbe andare in tilt se ci scrivete sopra col pennarello rosso. Bello ed accurato il fondale; peccato che lo sprite lo percorra in maniera discutibile.

Lo scontro finale

Il quadro generale italiano nel quale Space Hunter si colloca, quello delle avventure grafiche comiche/demenziali amatoriali, per di più italiane, pur essendo sparuto, non è completamente deludente: possiamo rivolgerci a “La Terribile Minaccia degli Invasori dall’Audiogalassia”, ai vecchi titoli della Nexus Entertainment (Wonder World) e a quanto riuscite a trovare googlando “avventura grafica amatoriale italiana”.

Voto.

Ahahahah.

Ci cascate sempre.

Non metto voti.

Ma so che ho l’odiosa tendenza a fare il “professore”.

E’ che mi disegnano così.

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