Il Grande Disegno

Ho terminato da poco l’ultimo libro di Stephen Hawking “The Grand Design” (Bantam Books, 2010)  che mi ero affrettato a comprare da Amazon in lingua originale sulla scia delle polemiche sorte in seguito all’anticipazione di alcuni contenuti. (Per soli venti euro, con la spedizione; e si tratta di un’edizione di tutto rispetto, con copertina bella solida e pagine in carta patinata a colori; chiaro che il mercato di lingua anglosassone è un oceano rispetto alla pozzanghera del mercato italiano).

In sintesi Hawking, in collaborazione con Leonard Mlodinov,  riprende in toto i concetti espressi con “La teoria del tutto. Origine e destino dell’universo” (Rizzoli, 2004), e vi aggiunge  una ventina di pagine al più per inserire la teoria del multiverso ( che non è fantascienza, in via del tutto speculativa e matematica esiste nell’ottica di unificare in un’unica teoria la gravitazione universale e la teoria dei quanti) e la spiegazione, alla luce della necessità di rispettare la legge della conservazione dell’energia totale di un sistema, del come l’universo possa essersi autogenerato, senza cioè la necessità di un intervento esterno (leggi: un qualche “dio”), se si ha l’accortezza di considerare la materia avente energia di segno positivo e la forza gravitazionale segno negativo. Sotto queste ipotesi, l’energia totale zero era prima, e zero rimane dopo.

Ora, volendo levare delle critiche agli intenti velleitari che l’opera si pone all’inizio, di volere dare una risposta a domande tipicamente metafisiche come “Perché esistiamo?””Perché esiste qualcosa piuttosto che il niente?”, i nostri sostituiscono di fatto al vecchio argomento creazionista un grande, enorme, “Poof!” che sinceramente è più improbabile forse delle raffigurazioni antropomorfe di un burbero vecchietto su una nuvoletta.

In realtà, la scienza che cerca di dimostrare la non necessità ( e dunque la non esistenza) di un qualche dio, si rende ridicola almeno tanto quanto oggi ci sembra ridicola la fede di chi, quattro secoli fa, forzava le prime scoperte scientifiche a sottostare alla cosmogonia “descritta” dalla Bibbia. Ma questo è un vecchio vizio che viene da lontano. Senza contare che, se prima c’era chi si chiedeva chi avesse creato un UNIverso, adesso deve fare i conti con un MULTIcreatore, il che non è certamente semplice.

In buona sostanza, Stephen Hawking per fare una postilla a “La teoria del tutto. …”, in cui introduceva una sorprendente categoria parlando di Dio, probabilmente in senso metaforico/simbolico, e facendo molto chiacchierare su una sua possibile conversione o dichiarazione di fede, ha finito per riscrivere daccapo il libro.

Era buona la prima, Steve…

Black Mirror II e The Lost Horizon

Questo è indubbiamente un ottimo momento per le avventure grafiche.
Da poco messa da parte The Whispered World, in attesa di DarkStar e Gray Matter, ancora sull’hard disk da terminare The Abbey, Ghost Pirates e qualcos’altro di retrò, sgomitano per farsi apprezzare due avventure di stampo molto classico: Black Mirror II , che si preannuncia essere un ottimo seguito del primo episodio, e The Lost Horizon , che non può non ricordare ai più vecchietti (ehm, ehm…) Flight of the Amazon Queen che potete scaricare liberamente dal sito dell’autore.
Per la prima, una presa d’atto è doverosa: la Adventure Productions è ormai una realtà editoriale, per quanto settorialmente specializzata, del panorama italiano; allo stesso tempo, questo comporta una grave responsabilità nei confronti del pubblico appassionato del genere e delle stesse software house.
Rivolgendoci invece alla seconda, viene spontaneo rallegrarsi di una simpatica abitudine che pare aver preso il via, nella cura delle confezioni (certamente non il primo motivo per l’acquisto, ma anche l’occhio vuole la sua parte) e del packaging; questa, ad esempio, è la confezione ed il contenuto di The Lost Horizon:

Un poster, una scatola con aereo in rilievo, e quello cos'è? un 45 giri?

La bella abitudine di “coccolare” il giocatore curando la confezione anche dal punto di vista artistico ed inserendo qualche gadget, rimpianta da molti, sembra che sia riportata in vita dalla Deep Silver/Koch Media (Austria), confermando quanto fatto con Secret Files 1 e 2, e The Whispered World.

Ritornano, insomma, le scatole di cartone, magari non quelle giganti “all’americana”, ma comunque in un formato che media psicologicamente la vicinanza tra un’avventura grafica ed un opera narrativa tradizionale nella forma di un libro. Forse nella foto si vede male, ma l’aereoplano è in rilievo, come in quei libri per bambini in cui le pagine, ritagliate, si aprono verso la terza dimensione; quello che sembra un 45 giri, è in realtà il dvd del gioco.
Penso proprio che tra i “very rare” ed i prezzoni che vedremo sull’ebay degli anni ’20 potranno a buon diritto esserci questi titoli.

Rhiannon (la conferma) – II

(Continua…)

Grafica.
Niente di eclatante. A volere essere buoni, si intuiscono le buone intenzioni che stanno dietro alla realizzazione dei fondali e dell’ambiente circostante, ma con le sole buone intenzioni non si fa un’avventura grafica decente. In prima persona, poi …

Vi sono locazioni la cui realizzazione è quasi imbarazzante, per un gioco che vuole essere commerciale; per esempio, trovate che questo sotto sia plausibile come desktop di un computer dei nostri giorni? L’icona a busta in alto a sinistra è la posta elettronica, quella in basso a destra è lo shutdown di sistema. Punto.

La scusa che il team di sviluppo sia formato da tre persone lascia il tempo che trova, dato che siamo sul livello di DarkFall, che ormai risale a 7 anni fa (eh sì, passa, il tempo…), è un “one man game” e già a quei tempi veniva definito “una serie di schermate in Powerpoint”….

Un esempio della grafica degli ambienti di Rhiannon

Interfaccia.

Solo un po’ di sforzo in più e forse non mi sarei potuto divertire ad infierire così tanto. Schermata del menu resume/salva/carica/esci che più tradizionale e statica non si può.
Inventario a scomparsa sul lato alto della schermata.
Il cursore che assume l’aspetto di una lente d’ingrandimento ci segnala che è possibile zoomare su un particolare.
Dove è possibile svolgere un’azione utilizzando un oggetto dell’inventario il cursore cambierà nel simbolo degli ingranaggi.
Sembra essere ritornati indietro di dieci anni; per spostarsi c’è il solito, odioso, insopportabile sistema del movimento “quantizzato” a schermate fisse: avanti, destra, sinistra, dietrofront, se ci dice bene sopra, sotto, e qualche spostamento in diagonale.
Non vi viene in mente qualche altro tipo di gioco? Ne parliamo più avanti. Non esiste, come invece in molte avventure in terza persona, una mappa che consenta di eliminare i tempi morti dello spostamento da una locazione all’altra (altrimenti la durata del gioco crollerebbe drasticamente).

Suono/Musica/Doppiaggio.

La musica, presente in pochissime locazioni ed occasioni, ad essere buoni si può considerare non valutabile.
Ho giocato la versione originale inglese; esiste una traduzione italiana che, anche se fosse ottima (e non ho motivo di pensare che non lo sia, intendiamoci bene, anche se non condivido in prima battuta le citate difficoltà di traduzione di alcuni brani in gergo giovanile), non credo riuscirebbe a ribaltare da sola la valutazione di quest’avventura.
I suoni, legati nell’ambiente esterno al fruscìo delle foglie, al cinguettìo degli uccellini, allo scorrere dell’acqua nei vari corsi e laghetti, sarebbero senza infamia e senza lode, se non fosse per quell’ossessionante biascichìo “rhiannonrhiannonrhiannonrhiannon” di alcune locazioni (tra cui il menu delle opzioni) che fa venire voglia di prendere a randellate il computer.

Enigmi.

Se trovate divertente andare in giro per la casa e dintorni alla ricerca di oggetti (o eventuali surrogati) per completare ben quattro rituali (i quattro “branches”, rami), beh, siete accontentati; la combinazione di oggetti dell’inventario è assente; pullulano gli enigmi di ricerca di chiavi/combinazioni per aprire porte, casseforti, lucchetti. La maggior parte delle volte si tratterà di dover trovare un oggetto o una serie di oggetti da utilizzare per un unico scopo (quasi sempre, una volta utilizzati, scompariranno dall’inventario). Uno dei problemi riscontrati è legato anche all’interfaccia: spesso non sarà immediatamente ovvio come utilizzare o combinare gli oggetti collezionati, e le informazioni raccolte dai numerosi documenti ritrovati qua e là potranno essere non solo ambigue, ma anche fuorvianti: così è ad esempio successo per un semplice lucchetto con combinazione a quattro cifre, la cui soluzione avrebbe dovuto essere, in teoria, parte di una data. Da censurare in modo inequivocabile è la scelta di non consentire di raccogliere un oggetto se non quando effettivamente se ne ha bisogno: se tu (sviluppatore) mi doni il superpotere di avere tasche di capienza infinita, e poi mi privi della libertà di raccogliere anche solo da terra tutto quello che voglio, hai creato un aborto, un superuomo tetraplegico. Viene da sé che questa non è una scelta dettata dalla ricerca di una maggiore aderenza ad un comportamento realistico, ma un escamotage per assicurare maggiore longevità al gioco, assieme alla mancanza di scorciatoie per raggiungere le singole locazioni. Difficile che riusciate a non consultare la soluzione per raggiungere il finale, e questo quasi mai per limitatezza del giocatore, ma per astrusità nell’elaborazione e progettazione degli enigmi.

Storia.

La vostra solita storia di una casa infestata, con l’aggravante della mancanza sostanziale di un valido motivo per essere sempre completamente da soli: anche nelle poche occasioni in cui potreste incontrare il postino, ne avvertirete la presenza solo per un clacson esterno, o lo sgommare dell’auto. Il vostro alter ego è un essere invisibile che non riesce neanche ad avere la propria immagine riflessa allo specchio (siamo forse un vampiro, chi lo sa).

Inutile sforzarsi ad affacciarsi allo specchio, non vi vedrete mai riflessi.

Se invece di fantasmi, ad infestare la casa fossero scarafaggi, forse l’intreccio sarebbe più interessante. (Badmojo docet)
In breve, l’inconsistente canovaccio: siete un tale Chris, amico dei Sullivan, una famiglia che ha scelto di acquistare una vecchia fattoria (ia ia oh! …ehm…)

Una parte della tenuta dei Sullivan

e di ristrutturarla, il quale ha accettato di custodire l’abitazione durante l’assenza della famiglia per un periodo di vacanza. Perché i Sullivan hanno deciso di “staccare”? Anche per far riprendere la figlia Rhiannon, un po’ sconvolta dalle manifestazioni sovrannaturali da lei ripetutamente denunciate ai genitori: bisbiglii notturni, visioni inquietanti, ed ovviamente “rhiannonrhiannonrhiannonrhiannon”.
Ma porca miseria, glielo volete dire a quel povero diavolo che la casa è infestata? Lui si “vendicherà” ovviamente andando a frugare in ogni dove, leggendo diari nascosti e posta privata, violando dunque uno dei primi diritti dell’uomo senza dei validi motivi. Premesse decisamente sgangherate non possono che portare ad un succedersi degli eventi di pari segno: le quattro storie delle quattro famiglie che si sono succedute nella zona in epoche diverse verranno portate avanti in maniera discontinua e non omogenea, con scatti e balzi avanti narrativi poco efficaci.
Vi sono non poche incongruenze anche nella realizzazione degli ambienti in relazione alla storia: direste ami che questa stanza, per quanto dotata di una porta di metallo, si spera, a tenuta stagna, è sopravvissuta per un secolo in questo stato, in un tunnel parzialmente allagato?

Una stanza sotterranea di un secolo fa conservata perfettamente per voi

E vi aspettereste di trovare, rigogliosa come quarant’anni fa e passa, una coltivazione clandestina di marijuana?

Le coltivazioni di marijuana, come è noto, si annaffiano da sole

Il gioco, se mai si poneva come obiettivo di essere un’avventura “di paura”, fallisce miseramente anche in questo: le manifestazioni che dovrebbero suscitare l’atmosfera “horror” si esauriscono nell’arco del primo capitolo, e la sensazione di timore che dovrebbe pervadere la nostra esplorazione della casa e degli ambienti circostanti, lascia prima il posto alla stessa paura che si prova durante una scampagnata, e successivamente ad un senso generale di torpore videoludico. Non so poi chi possa appassionarsi alle leggende e alla mitologia gallesi: al sottoscritto, che pure è generalmente tollerante e magnanimo nei riguardi delle avventure grafiche, non è capitato. Senza arrivare a tirare in ballo Jane Jensen, l’inventiva di Jonathan Boakes, che pure è uno che tende ad arrangiarsi, è di ben altro pianeta.

Voto.

Ma quale voto.
Sarete piuttosto voi disposti a fare voto di castità (a tempo determinato, s’intende) purché non vi capiti di imbattervi di nuovo in qualcosa del genere.
Amanti delle pallosissime avventure in soggettiva fine anni ’90 – primi anni 2000 della Arxel Tribe, Microids e quant’altro, questo titolo fa per voi.
Misantropi incalliti, idem.
Tanto per capirsi: Necronomicon (Microids, 2001) era tecnicamente superiore (almeno potevate girarvi sul posto a 360°) e parlare, ogni tanto, con qualche anima viva.
Dal tipo di modalità di spostamento (W-E-S-N-U-D), dal livello di interazione e di dialoghi, e dalla quantità di testi da leggere, e soprattutto dalle scelte grafiche effettuate, si può dire che giochi come Rhiannon assurgono a buon diritto come gli eredi diretti delle avventure testuali.

In sintesi, la gioia più grande che potrete trarre da Rhiannon, sarà disinstallarlo.

Rhiannon (la conferma) – I

Può mai valere la pena condurre a termine un’avventura grafica (ma lo stesso vale per un romanzo, un film, un’opera lirica) che già a metà si è rivelata deludente e poco rispondente alle aspettative, magari sottraendo tempo all’ultimo acquisto che giace lì sul mobile? La risposta a questa domanda che più retorica non si può, è sì, perché giocare le “schifezze”, tanto per usare una scala da due o tre valori, dà modo di apprezzare di più le perle vere di questo mondo così variegato.

La parola che meglio definisce l’esperienza di gioco che ho provato con Rhiannon – Curse of the Four Branches (giocato in versione originale inglese), è “noia”.  Noia per un’interfaccia che poteva essere sicuramente ideata meglio, in particolar modo in occasione della manipolazione di alcuni oggetti ed enigmi; noia per l’ennesimo esempio mal riuscito di raccolta degli oggetti “solo quando occorrono veramente”; noia per quel senso di non sapere esattamente cosa si debba fare che assale talvolta il giocatore sommerso dalla quantità di indizi e di documenti da elaborare (e “digerire”); noia per la mancanza quasi completa di colpi di scena e per la monotonia degli ambienti (né sopperisce in alcun modo a tale difetto il graduale rilascio dell’accesso ad alcune locazioni); noia per una trama che non riesce mai ad essere veramente avvincente e a catturare la simpatia del giocatore per le vicende della(e) povera(e) Rhiannon.

La sensazione di “avere perso tempo” mentre intanto sullo scaffale titoli ben più “sugosi” ed immediatamente accattivanti aspettavano pazientemente, è immediatamente dietro l’angolo una volta (finalmente!) aver assistito al sospirato (e moscio)  finale.

(Continua…)

Rhiannon

Una casa disabitata (ma piena di tracce di vita come se fosse passata una guarnigione di lanzichenecchi).

Un mistero legato ad ancestrali leggende.

Svenire ogni volta che si conclude un capitolo e risvegliarsi il giorno dopo sul pavimento.

Ecco un’altra avventura grafica in soggettiva sulla scia dell’ormai abusato filone tracciato originariamente fra gli altri da Alone in the Dark, Amber: Journey Beyond, e poi, non necessariamente tra le migliori, da Dark Fall, Scratches,  che sto, mio malgrado giocando. In versione inglese, anche se si dice che ci sia una versione in italiano.

Basta, basta, basta …

(A presto la recensione…  probabilmente una stroncatura)